il rating delle sabine

out of the ash
i rise with my red hair
and i eat men like air.
lady lazarus – sylvia plath

tento invano di sprofondare nella comoda poltroncina ortopedica, in attesa del film. alle mie spalle ignare, si consuma la tragedia.

cretino retrospettivo: guarda quella ragazza, è precisa a sabina.
morosa cupa: [sordo brontolio]
amica impicciona: chi è sabina?
morosa sprovveduta: una sua ex.
amica stronza: carina.
morosa ossessionata: assomigliano tutte a sabina, a sentire lui.
amica duntempo: [tace, imbarazzata]
morosa sarcastica: soprattutto se rosse, slanciate e col culo alto.
cretino inaffanno: ma no, patatina, che cosa dici?
morosa livorosa: vaffanculo.

screamin' pasta

valle del cesano, rituale riunione di fine anno tra gli agenti di viaggio delle filiali ddm.
la nerogatto l’ho lasciata a casa per incentivarne le relazioni sociali con la fauna randagia del cortile. ho chiesto alla signora milica di darle un’occhiata ogni tanto, tra i vasetti di salvia e lavanda sul ballatoio, raccomandandole di non cecchinare eventuali pretendenti alla copula.
il casale è smarrito tra le colline, discosto dai minuscoli borghi medievali circostanti dove garriscono gli arancioni vessilli, simbolo di armonico connubio tra tutela del patrimonio ambientartistorico e profusa ed assillante offerta di alberghetti, locanducce, osteriuole. il casolare è grazioso, in stile spartarustico senza rinunce alla comodità della vita moderna: dai cappelli di paglia appesi alla parete, ornati di fiorisecchi e nastri di raso, al forno a microonde, dall’oscuro attrezzo di presunta origine contadina al frigo con erogatore di ghiaccio. ci accoglie un cordiale caminetto, la mensola della cappa ingentilita da un fascio di sterpi e cannicciuole frammisto a pere di plastica. lo si accende, pur non mancando fornelli e caloriferi, perché fa tanto atmosfera, come sobilla una collega. mi sembra di udire il rumore degli iceberg che franano, lassù al nord, mentre il nostro pm10 lorda le aranciobandiere. un idiota tira la catena del caminetto – è tesa, non significa che la cappa è chiusa? – e in poco tempo ci aggiriamo in una camera di affumicamento per lo speck.
stavolta non si conta sulla parca organizzazione del ddm. alla ricerca del lardo per condire i tacconi sa’l sgagg – nel tentativo di evitare l’antica ricetta epatoclasta in forma di minestra – entriamo in una macelleria: un trionfo di barbaja, soppressata, porchetta, salame coi lardelli, mazzafegato e ciauscolo. siamo irrisi dal macellaio, alle cui orecchie le nostre parole suonano all’incirca: buon uomo, disponete forse di vil lardo, acciocché i tacconi siano conditi con l’urlo?
nell’angolo attende un signore, enorme. mi avvicina con andatura curva e strascicata. ha il volto di èntoniquin in zorbailgreco, ma più cirrotico. avvicina al mio viso la testa, enorme, mi fissa negli occhi con sguardo liquido e grigio e mi apostrofa da dove siete? eh, sospiro, indicando con un vago cenno le campagne circostanti. io di treviso, prosegue, emigrato qui da quarant’anni.

silenzio.
fingo improvviso interesse per un lonzino.

fuori ho la macchina ma non è mia, precisa.
mi ritraggo, presentendo il serialkiller.
io ne ho una a metano, insiste, faccio mai benzina.
osservo l’auto e la vistosa ammaccatura sulla fiancata. non sembrano esservi tracce di sangue sulla carrozzeria.

conto le salsicce sul banco.

mi potete aiutare? brontola, non so usare il sefsèrvis: troppi bottoni, troppi numeri, troppe fessure. dopo un rapido scambio di sguardi, acconsentiamo e lo accompagniamo al vicino distributore.
mentre l’agente venezia fa 5euro di carburante, noialtri attendiamo nella nostra auto. d’improvviso la portiera si spalanca e l’assassino infila tutta la testa, enorme, con tutte le spalle, enormi. ha un braccio celato dietro la schiena e penso: ora questo ci trucida, menomale che siamo già morti. solo la seccatura di redigere l’autocertificazione e il verbale in doppia copia per morte in facsimile.
la mano, enorme, scatta verso il mio viso, brandendo qualcosa.

spumantedolce, brandisce.

questo per voi e grazie per il disturbo, buone feste.
aveva un solco lungo il viso, come una specie di sorriso.

ci allontaniamo con sollievo. lo osservo nello specchietto retrovisore mentre, ancora tra le pompe della benzina, si accende una sigaretta.

chi muore si rivede

siamo ormai ai días de muertos, i giorni in cui i morti tornano nel mondo dei vivi – a volte attesi e graditi ospiti, più spesso inaspettati e tetri seccatori. e io, sospeso tra i due mondi, resto ai margini della grande festa. il classico tizio con il bicchiere in mano e il taglio di capelli sbagliato, un bassorilievo sul muro, che contempla a disagio danzatori, musici ed amanti.
potrebbe essere una buona occasione per tentare di rintracciare la piccolakrukka, ma la confusione è grande nel giorno in cui morti e vivi si mescolano, sovente indistinguibili.
quest’anno voglio festeggiare anch’io, e scacciare la malinconia. siamo io, il sauro, la nerogatto. due uniposca, uno giallo e uno nero, e zorba il geco sarà salamandra. per behemot, invece, ho visto su totenmoden un completino da urlo.
ed io, io sono perfetto così come sono. mi porterò solo una pratica bodybag impermeabile con zip, dovesse piovere o tirare vento.

arte coprografica

looking at these photographs
made me think
photography could be art.
robert mapplethorpe

un improvviso bagliore sfiora il mio sguardo prima di scivolare lungo il mare increspato dalla brezza, frantumandosi. mi volto e lo scorgo, una piccola figura velata dall’aria vibrante sulle pietre arroventate. il bambino del molo stringe tra le mani un oggetto saettante e avanza verso di me, seguendo una traccia contorta che mi sfugge. perlustra lo spazio circostante con lenta meticolosità, fino ad individuare un punto sul quale si avventa.
si china.
esamina.
esita.
poi si raddrizza e continua la ricerca.
a pochi metri da me, alza il viso e nel riconoscermi accenna un timido sorriso. con un cenno lo invito ad avvicinarsi e mi viene incontro, ostentando con noncuranza la macchina fotografica al collo.

– ciao, come stai?
– bene. ciao, signore.
– siamo amici: chiamami manuel, non signore.
– ok, signor manuel.
– come non detto. che cosa tieni in mano, hai una nuova macchina fotografica?
– sì, è diditale. seimega.
– e che cosa fotografi? posso vedere?
– merde.
– …
– cacche.
– ah, ecco.
– aspetta, ora ti faccio vedere…
– magari un’altra volta.
– cerco solo quelle belle, quelle strane. ne ho moltissime.
– e poi, che cosa ne fai?
– eh, non ci stanno mica tutte, qui. poca memoria.
– le scarichi sul computer, a casa?
– sì, di papà. ma ho la mia cartella, si chiama merde.
– neanche da chiedere.
– cosa?
– nulla.
– proprio l’altro giorno, mio fratello piccolo ne ha fatto una enorme in corridoio. sembrava una putizza. ho detto mamma, aspetta! lascia stare che faccio una foto! ma lei ha pulito subito tutto.
– peccato, era un bel colpo.
– ehi, guarda che cane!
– è un alano. promette bene.
– lo devo seguire! ciao, signor manuel.
– ciao.