bagaglino al seguito

sul marciapiede opposto, solo una famigliola è in attesa del treno. la madre si ripara dal sole all’ombra di un rachitico pino, tra l’arredo con aspirazioni neoclassiche e derive cementizie. il padre si difende come può dal figlio di circa 4 anni, che lo assedia a raffiche di perché e losai-losai-losai-che, la piccola mano rapace saldamente aggrappata alla tasca paterna.
alle loro spalle, una donna imbocca il sottopassaggio trascinando una bicicletta e rischiando la vita sulle scale darwinianamente ostili a carrozzelle, anziani, tripedi ma soprattutto a minigonne fascianti e tacchi alti. la donna riemerge incolume oltre i binari, arrancando e bestemmiando con generosità santa graziella da bottecchia. una breve sosta per il ripristino dell’ossigeno e della leggiadria perduta, poi si avvia sculettando entro il campo visivo del bimbo, che gaio la indica: ciao, bella gnocca!
la madre cerca frenetica un posto per seppellire la propria vergogna e il padre, combattuto tra orgoglio e imbarazzo, opta per una virile risata, che fellona volge in mugolio isterico. il pargolo ribadisce il concetto: ciaobellagnocca! mentre la donna inforca la bicicletta e si allontana impassibile, ignara del cantiere oltre la curva ove decine di muratori attendono in agguato.
una salva di fischi si alza vibrante nell’aria.

import-export

the pandemonium
was in full swing
jo stafford

un caffè tra le mani, ad oliare dita che non osano aprire una finestra.
il cielo tumefatto preme su questa primavera compressa e perfino il ciliegio sembra in bilico. aria aria aria, per non soffocare. behemot non si formalizza, un solo invito avulsivo e siamo fuori.
granzi pasquali vivi e inferociti recita l’acuto titolo d’apertura del mio quotidiano preferito, la vetrina della pescheriadavide. e poi quattro passi svogliati fino alle rive, a scrutinare la linea sfocata dell’orizzonte in trepida attesa della lieta novella d’oltreoceano, mentre la nerogatto guata le meduse.

fatamorgana

l’informativa del ddm era esatta. l’anima errata è sul molo, ai margini di un rissa per questioni territoriali o di precedenza tra un gabbiano clochard, un ghettogatto e un paio di loschi colombi. un signore minuto, i capelli scompigliati e lo sguardo grigio come un cielo gonfio di pioggia. fissa smarrito l’assurdo orizzonte: a volte emergono dal mare, come una fatamorgana, le montagne. il cielo le preme contro la città, immense ed azzurre. poi svaniscono, o affondano.
chiamo per nome l’uomo, che si volta sorridendo. è sempre così: non mi attendono ma non sono mai sorpresi dall’incontro. avevo dimenticato questa leggerezza, commenta. anni immerso nel piombo fuso, i polmoni e le vene invasi. non è ancora il momento giusto, spiego. pochi giorni, e tornerà da dove è venuto. mi segue senza una parola, concentrato nel camminare in equilibrio sul cordolo di cemento o nel saltare la fuga dei lastroni di arenaria.
a casa, si lascia cadere sulla poltrona per pochi secondi, poi si avvicina alla finestra inondata di sole. behemot, di vedetta sul ciliegio, nota l’intruso e con un balzo è sul davanzale. il signore minuto la afferra per la collottola e, trattenendola fra due dita, la solleva delicatamente davanti al viso. la nerogatto – sconcertata e offesa da una tale sfacciata confidenza – soffia come una pompa per biciclette ma resta inerte, appesa come un culatello. l’ospite la soppesa, sorride, infine la depone. behemot si dilegua tra i rami del ciliegio dove rimane a fissarlo, sbuffando furiosa.
il signore minuto torna alla poltrona, sospira soddisfatto, posa su di me gli occhi d’ardesia: ha forse della cotognata?

alice guarda i gatti

it’s a poor sort of memory
that only works backwards
lewis carroll

la nerogatto non conosce rette vie. solo parabole, archi di ellisse, iperboli, punti di discontinuità. l’inviluppo di una famiglia di curve dell’errore.
ma vive l’inverno, e io attendo la primavera.

querk

un piccolo grido soffocato, il tonfo delle porte che vengono chiuse. sollevo lentamente lo sguardo dal libro e scorgo l’uccellino penetrato nel treno. vola frenetico alla ricerca di una via per il cielo rischiarato dall’alba, urtando in un turbinio di piume contro pareti e finestre. i viaggiatori ne seguono i volteggi, sorpresi ed impietositi. il capotreno e un’intraprendente signora si rincorrono per il vagone come un fauno e una ninfa, intralciandosi nel tentativo di afferrarlo.
non ho ancora compreso la confidenza degli uccelli con la morte, ma lo prevedevo: il passero si posa sulla mia spalla, terrorizzato. cala un drammatico silenzio, scandito solo dallo sferragliare del treno. il controllore e la donna sono pietrificati. senza una parola, con gesti lenti e misurati, raccolgo nella mano l’esserino, mi alzo, apro la finestra, lo libero, riprendo a leggere. la tensione sfuma in un sospiro, le schiene si rilassano, le teste si posano sullo schienale, le mani non stringono più i braccioli. sarà finito sotto le ruote, insinua un sadico. mi guardano come se fossi predestinato a quel gesto da generazioni, intravedono flemma e freddezza nelle mie funzioni vitali intorpidite e nella mia incapacità di relazionarmi con un essere umano prima di mezzogiorno.
la scultura di canova al centro del vagone non si è sciolta ancora, avvinghiata in una stretta dionisiaca. uh, meno male, che bravo, sussurra la ninfa. già, grugnisce il satiro. eh, ma se era un pipistrello, volevo vedere io, provoca lei. se era un pipistrello mi lanciavo io dal finestrino, penso. signo’, a quest’ora nun ce stanno pipistrelli, nun ce vedono de giorno, sentenzia lui, evidente lettore di focus.

spero che i perché dei bambini non incontrino mai certe persone.