non è sport per signorine

i’m a rock star because
i couldn’t be a soccer star.
rod stewart

sono infine tornato, nelle prime ore del mattino. entro nel bar della stazione, ancora deserto, e tento di riavviare bioritmo e ritmi triestini ordinando un capinbì. accanto a me solo tre uomini, che discutono animatamente della sconfitta della nazionale italiana. la delusione è forte, quasi incredula.
l’uomo enorme e silenzioso traffica con la macchina espresso, celata dall’ampia schiena, poi si volta e dalle sue grandi mani appaiono piattini, cucchiaini e tazzine. ci fissa a lungo negli occhi e, con forte accento balcanico, pone fine ad ogni discussione: no si mete gel su capeli e profumo. bisogna essere sport, aggiunge gonfiando il torace e contraendo i muscoli delle braccia lungo i fianchi.

ora vado, ho molte cose da fare.

capo in b (lett. cappuccino in bicchiere): a trieste il cappuccino è un caffè macchiato, il caffelatte è un cappuccino, il latte macchiato è un caffelatte, per avere un latte macchiato si deve prima seguire un corso e poi chiedere una dispensa a illy. il capinbì differisce dal cappuccino in tazza per il contenitore – un bicchierino di vetro – e il maggiore apporto di schiuma di latte. il gocciato, o goccia, prevede invece la presenza di una sola goccia di latte al centro del caffè. tra le molte varianti si ricorda qui il capo in bi special, simile al marocchino, ornato da una spolverata di cacao.

nottebianca

write something, even if
it’s just a suicide note
gore vidal

suona rabbioso il campanello, ma non aspetto visite né le ho mai attese. il campanello insiste, smorzato solo dall’aria viscosa di questa sera tropicale. behemot si alza per scartavetrare la porta e miagola sommessa, come il commissariorex quando tenta di comunicare con la mente ottenebrata di tabiasmoretti. aperta la porta, un giovane uomo dall’aria sconvolta si affretta ad entrare e, prima ancora che io pronunci una parola, si accascia sul divano. ho la curiosa impressione che conosca la casa e la nerogatto affondata nel suo grembo – lei che considera estranea perfino se stessa – non dissipa i miei dubbi. l’ospite ha il volto smagrito e livido, gli occhi scuri spiccano lucidi e gonfi nell’ombra del viso malrasato e dei capelli in disordine.

– ci conosciamo?
– io conosco te.

affonda le dita con forza nel pelo di behemot, che invece di mutilare lo sconosciuto socchiude gli occhi soddisfatta.

– che cosa posso fare per te?
– il tuo lavoro. portami dall’altra parte.
– ascolta, non posso farlo. se la tua strada fosse aperta non saresti qui. e non sei un’anima errata, non ho avuto avvisi. posso controllare nella bancadati… no, non ci sei. non
– so chi sei, fammi attraversare.
– ti ho detto che
– ho ascoltato. ho chiuso la porta dietro di me, tu apri la prossima.
– ma quale porta
– molta benzodiazepina e molta grappa.
– molto cretino.

l’ospite che chiudeva le porte scuote le spalle, mentre accarezza la nerogatto, vibrante di piacere.

– se fossi morto, ti smisterebbe il ddm. sei in coma?
– non so, sono nuovo. c’è un esame?
– no, non lo sei, altrimenti ti avrei raccolto io. strano.
– io voglio passare, del resto non me ne frega nulla.
– qualcosa ti trattiene, ma che cosa? non ci sono molte possibilità. vigliaccheria e paura fermano prima le persone. oltre il punto di non ritorno, se qualcosa non va storto, si muore o si entra in coma, ma non si viene certo a casa mia a quest’ora per
– sono qui per questo, non voglio restare in una vita che non voglio. mi trattengono i fantasmi di un amico, i sorrisi e i baci di una bambina, due poveri vecchi, una persona lontana, l’amore per una ragazza.
– che folla. io, murivu senza toccu di campani.
la la la lero la lero la lero la lero la lero la lero la la.
– calavera, sugnu. dimmi: questa ragazza, sei qui per lei?
– nel cuore ha un groviglio eterogeneo di pensieri, sentimenti e angosce che non sa sbrogliare. rimangono lì e imputridiscono, e io con essi. cerca la sua felicità senza curarsi di ferirmi perché ho perso contorno, sfumato nel marciume. invoca distanze e tempo ma li annulla con scelte crudeli.
– negramaro.
– no, tiromancino.
– un lacryma christi?
– non mescolo alcolici, grazie. voglio liberare entrambi.
– idiota. sciolto il groviglio, le resterà solo un doloroso buconero da cui più nulla potrà farti uscire.
– mi dimenticherà e forse il dispiacere le ricorderà perché mi amava.
– ti odierà e sarai un fantasma. non hai diritto di somministrare dolore ad altri per curare il tuo.
– anche lei, se è per questo. apri quella porta e fammi andare.
– io apro solo la porta del bagno, ti metti due dita in gola e finché non hai rivoltato le viscere non esci da lì.
– io non
– ma tu guarda che gente. e quando hai finito facciamo una lunga passeggiata, possiamo parlare tutta la notte.
– mi abbraccerà ancora?
– no, finché puzzi a quel modo. e dammi quel foglietto, che cosa le avevi scritto? patetico, sembra tizianoferro… ma che cazzo di musica ascolti?

la nuova era littoria

l’uomo è alto, dal fisico atletico, e spicca nella piccola folla in attesa alla fermata dell’autobus come un inuit ai caraibi. porta un berretto di lana alla qualcuno voleva volare sul nido del cuculo, lo sguardo è celato da lenti scure e fascianti, sostenute da grandi baffi alla paul cayard. l’ampio torace è inguainato in una giacca da motociclista, le gambe sono strette da jeans sdruciti. con un anfibio sbriciola un mozzicone, scagliato a terra con gesto virile.
all’arrivo dell’autobus lo perdo di vista nella ressa ma la sua presenza si impone dopo pochi minuti, quando 20 persone sedute e 93 in piedi si voltano verso il fondo del corridoio, richiamate da una voce che risuona alterata. si apre un varco, tra espressioni costernate, imbarazzate o divertite, e lo vedo: l’uomo è imbullonato a gambe divaricate e preme all’orecchio un cellulare con maschia fermezza.
non posso trasmettere, non ho credito, tuona.
mi han tolto i fondi, non posso, sbraita.
declama con voce stentorea:

in quell’angolo di cielo
riservato a tutti noi,
dove vivono in eterno
santi, martiri ed eroi

c’è troppa negatività in questa città, conclude al telefono, la gente non capisce.
scatta un braccio teso, come al dr. strangelove, e dal rumore secco sospetto una frattura alle falangi contro gli appositi sostegni. poi tace, a gambelarghe e bracciaconserte.
sceso dall’autobus, canticchio quelle parole a ritmo di marcetta per non dimenticarle. la ricerca è breve: con la morte a paro a paro, composta dal maggiore [bechi luserna, ndr] su musica del maestro pettinato nel 1941, titolo ripreso da un verso de la canzone del quarnaro di gabriele d’annunzio, divenuto presto un evergreen per i cordiali ed affabili parà. l’intenso e commovente testo, mirabile sintesi di spirito fascista patriottico e italico sentimentalismo, è noto in tutto il mondo grazie a puntuali traduzioni come with the dead women to pair to pair.

uno spin-off nel fianco

really, i’m in the wrong sector
of the right side
il partigiano johnny – beppe fenoglio

lo pensavo anch’io, seduto vicino alla frana di polenta e čevapčiči, la griglia sopravento.
le bottiglie di vino riposano ancora nel bunker, lacerazione di una cicatrice che unisce lembi benedetti dal vino e maledetti dal sangue. terre liberate, da liberare, mai abbastanza libere. libertà come strati geologici, calvario dopo podgora.
anche loro, se liberati, vivono di vita propria.

love boat

la stagione dell’amore viene e va,
i desideri non invecchiano quasi mai con l’età.
la stagione dell’amore – franco battiato

divago lungo le rive, in una splendida e tersa mattinata, amabilmente arruffato dalla bora a 80km/h. nel cielo i gabbiani si librano paralleli, becco a nordest, e assecondano le forti raffiche con ampie e veloci virate fino a un nuovo equilibrio. sotto il velo di spuma fioriscono le innumerevoli meduse.
c’erano anni in cui, in giorni come questi, m’inebriavo di tutte le ragazze che incontravo.
l’enorme mole immacolata dell’ermengald – ammiraglia della geriatric cruise line – sovrasta la banchina dissestata della stazione marittima. gli avanguardisti della classe ’99 sciamano compatti sul molo – hanno 6 ore di tempo per visitare il friuli venezia giulia – ma sono presto respinti e dispersi dalle folate di vento. un turbine di cappellini, giornali, guide, foulard si leva nel cielo e prende il largo, rasentando le onde. i gabbiani si gettano rapidi in picchiata e cabrano, con strida frustrate.
una coppia si avvicina barcollante e tenta di attirare l’attenzione: un’esemplare femmina del tardo pliocene, a braccetto con la figlia coetanea. indossano la tenuta da sbarco dei crocieristi: cappello di paglia ampio come un tavolino da bar, camicione decorato a fiori e tralci, comode braghe alla pescatora, sandali in materiale composito.

  • – hi! excuse me, where are the cannons?
  • – sorry? cannons, you mean in a museum or what?
  • – well, i came here in trieste half a century ago for the first time.
  • – a long time ago.
  • – during the allied government, you know? on a ship full of soldiers. i was the only woman.

abbozzo un sorriso, con espressione comprensiva e polisemica.

  • – ah, no, no, it’s not as you think: nothing to do with soldiers.
  • – well, i didn’t mean…
  • – just partigiani. all of them. screw them all. all the partigiani in the carso.

ora la voce è stridula ed eccitata, la figlia annuisce con forza.

  • – what about the cannons? where are they? we went there to make love, you know.
  • – ok, come with me.

la sede dell’anpi non è lontana.