la commedia dell'arte

tutti cercan di fare quello che fanno gli altri.
una volta correva l’acquavite, adesso è in voga lo spritz
la bottega del caffè – carlo goldoni

(ansa) – roma, 17 feb

a margine del festival di sanremo, il ministro delle politiche agricole luca zaia commenta la prima serata e si rammarica per la coppa di champagne: ‘con tutto il rispetto per l’artista, avrei preferito si promuovesse un prodotto italiano come il prosecco, noto in tutto il mondo’.

rinnoviamo il burlesque.

non è sport per signorine

i’m a rock star because
i couldn’t be a soccer star.
rod stewart

sono infine tornato, nelle prime ore del mattino. entro nel bar della stazione, ancora deserto, e tento di riavviare bioritmo e ritmi triestini ordinando un capinbì. accanto a me solo tre uomini, che discutono animatamente della sconfitta della nazionale italiana. la delusione è forte, quasi incredula.
l’uomo enorme e silenzioso traffica con la macchina espresso, celata dall’ampia schiena, poi si volta e dalle sue grandi mani appaiono piattini, cucchiaini e tazzine. ci fissa a lungo negli occhi e, con forte accento balcanico, pone fine ad ogni discussione: no si mete gel su capeli e profumo. bisogna essere sport, aggiunge gonfiando il torace e contraendo i muscoli delle braccia lungo i fianchi.

ora vado, ho molte cose da fare.

capo in b (lett. cappuccino in bicchiere): a trieste il cappuccino è un caffè macchiato, il caffelatte è un cappuccino, il latte macchiato è un caffelatte, per avere un latte macchiato si deve prima seguire un corso e poi chiedere una dispensa a illy. il capinbì differisce dal cappuccino in tazza per il contenitore – un bicchierino di vetro – e il maggiore apporto di schiuma di latte. il gocciato, o goccia, prevede invece la presenza di una sola goccia di latte al centro del caffè. tra le molte varianti si ricorda qui il capo in bi special, simile al marocchino, ornato da una spolverata di cacao.

cavalieri d’altri tempi

il nemico è scappato, è vinto, è battuto
dietro la collina non c’è più nessuno
solo aghi di pino e silenzio e funghi
buoni da mangiare buoni da seccare
da farci il sugo quando viene natale
quando i bambini piangono
e a dormire non ci vogliono andare.
generale – francesco de gregori

– maledetta pioggia – sospira il vecchietto accanto a me.

al riparo di un cornicione, da tempo osserviamo in silenzio il torrente che scorre nella strada e trascina la sporcizia della città e dei miei pensieri. sono agli sgoccioli del mio lungo periodo di aggiornamento, come lo definiscono al ddm. rieducazione, dico io. e mesi di fish supper da crolla’s.

– già – rispondo infine, per non essere scortese.
– straniero, eh? – chiede il vecchio, incuriosito dal mio pessimo accento.

mi limito a un sorriso, ché non ho voglia di socializzare e l’uomo sta evidentemente cercando uno spiraglio.

– meglio che inglese. cosa ci fa uno straniero sotto la pioggia di aberdeen?
– si bagna. ma tra pochi giorni si asciugherà sotto il sole di un altro cielo.
– torni a casa, allora. spagnolo?
– in un certo senso. ma torno in italia.
– italia? ah, l’italia. conosco bene l’italia. ci sono stato, in italia. bella, l’italia. italia, quanti ricordi.

ahia, penso. ora ci siamo.

– italia, dove?
– trieste, credo.
– trieste? ah, trieste. conosco bene trieste. ci sono stato, a trieste. bella, trieste. trieste, quanti ricordi.

merda.

– triestino, dunque.
– non proprio. prima vivevo dalle parti di venezia, a m*. in un’altra vita.
– m*? ah, m*. conosco bene m*. ci sono stato, a m*. bella, m*. m*, quanti ricordi.

eh, ma che cazzo. una possibilità su un miliardo, c’era. ora però sono curioso.

– m*? ti eri perso?
– era una domenica, il 29 aprile di 63 anni fa.
– seconda guerra mondiale?!
– no, la battaglia di stirling bridge.
– nell’esercito inglese?
inglese la tua sorella, come dite voi italiani. 12° reggimento dei reali lancieri di scozia. c’erano anche i kiwi, con noi, eravamo sbarcati a napoli.
– cavalleria, insomma.
– era una corsa contro il tempo, the race for trieste. il comando dell’ottava armata aveva dato l’ordine di raggiungerla il prima possibile, prima delle truppe di tito.
– avete bucato per strada, mi sa.
– awa’ n bile yer heid.

o qualcosa del genere.

– non per colpa nostra. ordini dall’alto – continua il vecchietto.
– ma se
– più in alto. dicevo, quella domenica avevamo attraversato padova sotto una pioggia deprimente, proprio come oggi.
– ma chi?
– io e i miei compagni. formavamo una piccola avanguardia, con due daimler e un dingo.
– unità cinofila?
– ma no. due veicoli corazzati, stessa torretta del carro tetrarch, e un autoblindo leggero da ricognizione. quella mattina procedevo veloce con il visore sollevato, tra i civili che si trascinavano ai margini della strada. a circa 5 miglia da mestre, nel punto in cui una strada si dipartiva alla nostra sinistra, apparve improvvisa una colonna di carri trainati da cavalli e uomini in marcia nella direzione opposta alla nostra.
– profughi?
– tedeschi! inchiodai i freni e fred fece subito partire un colpo da 2 libbre. non molto piacevole per me, di sotto con il visore aperto, investito dalla fiammata e dal fumo. nella concitazione del momento pete non ebbe il tempo di abbassare la culatta e il cannone si inceppò. poveri civili, per la paura si gettarono nei fossi lungo la strada.
– e i tedeschi?
– non so, facemmo subito dietro-front in direzione del paesino vicino. scoprimmo solo più tardi di aver ucciso il comandante della colonna. lungo la strada entrammo in contatto con i partigiani, apparsi dal nulla. il sergente green decise che pete, fred e io saremmo andati in ricognizione verso il paese, lui sarebbe rimasto lì a fare da collegamento, con l’autoblindo e il dingo.
– e i partigiani?
– aggrappati al veicolo come scimmie.
– manca solo la magnani.
– non dimenticherò mai il momento in cui attraversai il ponte a schiena d’asino e la vista della
– m*!
– sì. non dimenticherò mai il momento in cui attraversai il ponte a schiena d’asino e la vista della piazza del paese, affollata di tedeschi e dei loro mezzi.
– erano così tanti?
– circa 600. avevo una gran voglia di battermela ma freddie non volle. la situazione sembrava disperata.
– che cosa avete fatto?
– procedemmo lentamente. mi era venuta un’idea. per fortuna pete parlava un buon tedesco e con il montgomery bianco sembrava un perfetto ufficiale.
– montgomery bianco?
– sì, me l’aveva affidato un ufficiale ferito – ridacchia – avresti dovuto vedere pete, come imbrogliò tutti quegli immacolati ufficiali tedeschi. intimò loro di arrendersi perché il paese era circondato da uno squadrone di mezzi corazzati.
– e poi?
– fred mi ordinò di uscire e raccogliere le armi degli ufficiali, che fecero il saluto e le consegnarono. nel frattempo sopraggiunse il dingo di ron taylor.
– non ci crederai, ma nessuno conosce o ricorda la nostra liberazione.
– non è finita. all’improvviso, apparvero tre spitfire e i tedeschi si sparpagliarono in tutte le direzioni
– aerei?
– caccia della raf. i nostri, insomma. ed eravamo nella merda.
– perché?
– trova tu 5 dei tuoi tra 600 tedeschi, da quell’altezza. afferrai il telo di riconoscimento e anche se fred protestò – poteva essere usato solo con l’autorizzazione del quartiere generale – lo gettai sopra il daimler. gli aerei volteggiarono bassi, sbatterono le ali e si rialzarono. grazie a dio non erano yankees!

fisso lo scroscio di una grondaia, trattenendo la commozione al pensiero del ragazzino che liberò un paese con la sua inventiva.

– più tardi fece il suo ingresso un distaccamento del 7° squadrone e tirammo un sospiro di sollievo. fu una vera festa, ho una foto di quel giorno.

una foto e il suo ricordo, nient’altro.

– con tutto quel casino, entrammo a venezia soltanto il giorno dopo. e poi partimmo in direzione di pordenone.
– pordenone?
– non proprio. un paesino vicino, porcia. lì rimanemmo per due mesi, alloggiati in una grande villa.
– ma non dovevate correre verso
– ordini dall’alto, te l’ho detto. credo che gli americani non volessero entrare a trieste dopo di noi, anche se solo noi avevamo qualche possibilità di precedere tito. abbiamo incontrato le sue truppe a monfalcone.
– immagino la frustrazione, la delusione.
– scherzi? due mesi senza combattere! ogni sera in osteria a ballare con le ragazze e a bere buon vino. anche grappa.

accenna due passi di danza.

– pure a trieste non andò male, eravamo alloggiati nella scuola di miramare e
– scuola? il castello, forse.
– sì, la scuola ufficiali dei tedeschi. e sir john harding, comandante del 13° corpo, si congratulò con il nostro squadrone: ci fu una parata in nostro onore!

gli si illumina il viso al solo pensarci.

– ehm, signor…
– soldato milne, dougal milne.
– non piove più. e ti devo una birra.

nottebianca

write something, even if
it’s just a suicide note
gore vidal

suona rabbioso il campanello, ma non aspetto visite né le ho mai attese. il campanello insiste, smorzato solo dall’aria viscosa di questa sera tropicale. behemot si alza per scartavetrare la porta e miagola sommessa, come il commissariorex quando tenta di comunicare con la mente ottenebrata di tabiasmoretti. aperta la porta, un giovane uomo dall’aria sconvolta si affretta ad entrare e, prima ancora che io pronunci una parola, si accascia sul divano. ho la curiosa impressione che conosca la casa e la nerogatto affondata nel suo grembo – lei che considera estranea perfino se stessa – non dissipa i miei dubbi. l’ospite ha il volto smagrito e livido, gli occhi scuri spiccano lucidi e gonfi nell’ombra del viso malrasato e dei capelli in disordine.

– ci conosciamo?
– io conosco te.

affonda le dita con forza nel pelo di behemot, che invece di mutilare lo sconosciuto socchiude gli occhi soddisfatta.

– che cosa posso fare per te?
– il tuo lavoro. portami dall’altra parte.
– ascolta, non posso farlo. se la tua strada fosse aperta non saresti qui. e non sei un’anima errata, non ho avuto avvisi. posso controllare nella bancadati… no, non ci sei. non
– so chi sei, fammi attraversare.
– ti ho detto che
– ho ascoltato. ho chiuso la porta dietro di me, tu apri la prossima.
– ma quale porta
– molta benzodiazepina e molta grappa.
– molto cretino.

l’ospite che chiudeva le porte scuote le spalle, mentre accarezza la nerogatto, vibrante di piacere.

– se fossi morto, ti smisterebbe il ddm. sei in coma?
– non so, sono nuovo. c’è un esame?
– no, non lo sei, altrimenti ti avrei raccolto io. strano.
– io voglio passare, del resto non me ne frega nulla.
– qualcosa ti trattiene, ma che cosa? non ci sono molte possibilità. vigliaccheria e paura fermano prima le persone. oltre il punto di non ritorno, se qualcosa non va storto, si muore o si entra in coma, ma non si viene certo a casa mia a quest’ora per
– sono qui per questo, non voglio restare in una vita che non voglio. mi trattengono i fantasmi di un amico, i sorrisi e i baci di una bambina, due poveri vecchi, una persona lontana, l’amore per una ragazza.
– che folla. io, murivu senza toccu di campani.
la la la lero la lero la lero la lero la lero la lero la la.
– calavera, sugnu. dimmi: questa ragazza, sei qui per lei?
– nel cuore ha un groviglio eterogeneo di pensieri, sentimenti e angosce che non sa sbrogliare. rimangono lì e imputridiscono, e io con essi. cerca la sua felicità senza curarsi di ferirmi perché ho perso contorno, sfumato nel marciume. invoca distanze e tempo ma li annulla con scelte crudeli.
– negramaro.
– no, tiromancino.
– un lacryma christi?
– non mescolo alcolici, grazie. voglio liberare entrambi.
– idiota. sciolto il groviglio, le resterà solo un doloroso buconero da cui più nulla potrà farti uscire.
– mi dimenticherà e forse il dispiacere le ricorderà perché mi amava.
– ti odierà e sarai un fantasma. non hai diritto di somministrare dolore ad altri per curare il tuo.
– anche lei, se è per questo. apri quella porta e fammi andare.
– io apro solo la porta del bagno, ti metti due dita in gola e finché non hai rivoltato le viscere non esci da lì.
– io non
– ma tu guarda che gente. e quando hai finito facciamo una lunga passeggiata, possiamo parlare tutta la notte.
– mi abbraccerà ancora?
– no, finché puzzi a quel modo. e dammi quel foglietto, che cosa le avevi scritto? patetico, sembra tizianoferro… ma che cazzo di musica ascolti?