teddy boy

a jessica,
che abbia cura di p.

meisterpetz, giudicato socialmente pericoloso, è stato arrestato. negli ultimi tempi si avvicinava troppo a baite, pollai, alveari, partite di briscola a 3 e pasticcerie, sovente con le zampe infangate e senza rispettare la fila. ormai si era fatto furbo: frequenti le incursioni nei centri abitati, con tentativi di introdursi nelle case spacciandosi per testimone di geova. si tradiva solo perché suonava il campanello dopo le 9 della domenica mattina.
il radiocollare applicato la scorsa estate, per prevenire sconfinamenti pericolosi, si era rivelato inutile allo scopo ma aveva consentito a meisterpetz di stringere amicizia con molti camionisti sul brennero. la sua pericolosa confidenza con gli essere umani rischiava di diventare un cattivo esempio per i figli e rovinava il buon nome degli altri 20-25 paciosi esemplari del parco dell’adamello-brenta.
l’orso è stato catturato con la tecnica non letale della telenarcosi, che consiste nel collocare un televisore acceso sul luogo prescelto per l’adescamento, imbandito secondo le leggere prescrizioni della cucina trentina. ora è rinchiuso nel recinto del santuario di s. romedio, a coredo, dove sarà avviato al noviziato per prendere i voti con il nome di fra’ bruno.

melcedes

la mercedes balkan sta subendo un lento ma inarrestabile processo di cinesizzazione. i primi sintomi risalgono al mese scorso, quando il mio collaboratore scoprì uno specchietto pendere mesto dal proprio supporto, quale ramo spezzato. fece visitare il lugubre arto a vili meccanici e grevi sfasciacarrozze, constatando l’esosità del ricambio. le risorse elargite dal ddm sono esigue.
un losco carrozziere suggerì il rimedio, prosaico ma efficace: ordinare un surrogato cinese. presto la medesima sorte toccò a fanali, paraurti e cerchioni.
oggi la metastasi è giunta a una fase critica e l’avvilito anestesista-rianimatore è tormentato dal dubbio: passi per l’esteso ed involuto sfregio sul cofano, ma è necessario supplire all’argenteo stemma, vilmente sottratto, con l’aurea costellazione cinese?

la nuova era littoria

l’uomo è alto, dal fisico atletico, e spicca nella piccola folla in attesa alla fermata dell’autobus come un inuit ai caraibi. porta un berretto di lana alla qualcuno voleva volare sul nido del cuculo, lo sguardo è celato da lenti scure e fascianti, sostenute da grandi baffi alla paul cayard. l’ampio torace è inguainato in una giacca da motociclista, le gambe sono strette da jeans sdruciti. con un anfibio sbriciola un mozzicone, scagliato a terra con gesto virile.
all’arrivo dell’autobus lo perdo di vista nella ressa ma la sua presenza si impone dopo pochi minuti, quando 20 persone sedute e 93 in piedi si voltano verso il fondo del corridoio, richiamate da una voce che risuona alterata. si apre un varco, tra espressioni costernate, imbarazzate o divertite, e lo vedo: l’uomo è imbullonato a gambe divaricate e preme all’orecchio un cellulare con maschia fermezza.
non posso trasmettere, non ho credito, tuona.
mi han tolto i fondi, non posso, sbraita.
declama con voce stentorea:

in quell’angolo di cielo
riservato a tutti noi,
dove vivono in eterno
santi, martiri ed eroi

c’è troppa negatività in questa città, conclude al telefono, la gente non capisce.
scatta un braccio teso, come al dr. strangelove, e dal rumore secco sospetto una frattura alle falangi contro gli appositi sostegni. poi tace, a gambelarghe e bracciaconserte.
sceso dall’autobus, canticchio quelle parole a ritmo di marcetta per non dimenticarle. la ricerca è breve: con la morte a paro a paro, composta dal maggiore [bechi luserna, ndr] su musica del maestro pettinato nel 1941, titolo ripreso da un verso de la canzone del quarnaro di gabriele d’annunzio, divenuto presto un evergreen per i cordiali ed affabili parà. l’intenso e commovente testo, mirabile sintesi di spirito fascista patriottico e italico sentimentalismo, è noto in tutto il mondo grazie a puntuali traduzioni come with the dead women to pair to pair.

oh lady won’t you sell me a mercedes benz

eviterò di accompagnare ancora il mio assistente, quella mercedes balkan è imbarazzante.
eravamo in auto, parcheggiata sottocasa. accanto a me l’anestesista-rianimatore, in preda ad una crisi di panico, elaborava ad alta voce la migliore strategia per partire. ho sentito anche cunei di legno. il conflitto tra la strada in salita e il freno di stazionamento a pedale appariva insanabile. tre uomini si avvicinano, chiaramente interessati alla nostra presenza, e orbitano lentamente attorno alla mercedes. sembrano osservare o cercare un dettaglio: uno saggia la carrozzeria, un altro verifica i pneumatici, un terzo si piega a terra e controlla il pianale. si riuniscono davanti al cofano e confabulano, scrutando l’interno. mi fissano con incredulità e disprezzo, scuotendo la testa. concluso il consiglio, il portavoce bussa al finestrino dell’anestesista-rianimatore.

– tua auto?
– sì.

rapido sguardo sdegnato nella mia direzione.

– tu vendi auto.
– no.
– noi pagare bene.
– non la vendo.
– no buona per te. noi diamo soldi, tu compri auto giusta per te. fiat panda.
– a me va bene questa.
– no. tu donna.

sono tra noi

cerco rifugio all’ombra dei tigli, immergendo le caviglie nelle soffici nubi di polline di pioppo. il vialetto costeggia un muretto di cinta in cemento muschiato, oltre il quale si vedono un cortile deserto e un basso edificio intonacato di bianco, con ampie vetrate scure. sull’erba giacciono abbandonati scivoli, pedane, pneumatici, una fila di paletti, una vasca di sabbia, tubi di cemento e ostacoli vari. forse un percorso di agility. il vialetto ne segue il perimetro con una brusca svolta, oltre la quale al muretto subentra una semplice rete metallica.
svoltato l’angolo, avverto un clamore indistinto e crescente: l’intero edificio sembra vibrare. una grande porta a vetri si spalanca alla pressione sonora, che si riversa nel cortile in forma di sciame di bambini urlanti. corrono in formazione, lungo un’immaginaria spirale, finché il bimboalfa mi nota e frena l’impeto del branco allargando le braccine.

silenzio.
uno scooter lontano, il mio respiro, una pratolina che si schiude.

poi il bambino mi indica e al suo gesto l’orda mi corre incontro con un eeeeeeeeeh assordante. si avventano sulla rete come tonni in una tonnara, avvinghiando le maglie con le piccole dita rapaci, e il recinto si gonfia e geme sotto i loro urti. li conto: 23 occhi e una benda mi fissano.
il capobranco, un esserino dai capelli rasati, con l’orecchino e un tatuaggio di dragonball alla spalla, impone il silenzio. sei uno zingaro? mi interroga eccitato. incuriosito, ammetto a malincuore le mie turpi origini rom. è ‘nozzingaro è ‘nozzingaro, sussurrano da un orecchio all’altro i miei inquisitori. oggi è venuta all’asilo una bambina zingara, prosegue grave il piccolo capo. tutti i bambini, qui, sono zingari, insinuo. noevvero, noevvero, nossiamo zingari! protestano sdegnati. l’eccitazione è ormai incontenibile e il branco si disperde nel cortile urlando eeeeeeeeeh izzingari izzingariii!
mi allontano e penso agli imbecilli – maestre d’asilo o genitori – che hanno annunciato l’arrivo di una zingarella, prima di consegnarle il grembiulino con un triangolo marrone cucito sulla manica.