calabroleso

due tavolini, un bancone e un ventre avvolti da una luce pastosa e gialla.
una grappa, per favore. il viso emerge dalla penombra e mi fissa per qualche secondo, mentre le mani asciugano un bicchiere opaco come l’ouzo. non capisco se usi un canovaccio o un vecchio calzino. che grappa, ribatte seccato. sgrana un rosario di cannella, asperula, ruta, melaverde, noci, corteccia, ginepro, genziana, ortica, fragola, picolit, torrone, menta, santoreggia, tiglio, salvia, cozze, arancia, ciliegie, amarone, cipolla, lampone, sauvignon. esito, stordito. poi ordino la sola rimasta impigliata alle mie reti neuronali: grappa aromatizzata al peperoncino grazie, scandisco. si serva pure, e con un cenno del gomito indica una mensola polverosa alla mia destra, irta di bottiglie. sono in ordine alfabetico, precisa compiaciuto. miele, mirtillo, mirto, ortica… eccola. l’uomo riprende ad asciugare il bicchiere, frenetico.
avrei dovuto insospettirmi per l’etichetta recante un teschio con due peperoncini incrociati, come pure per l’intenso giallo paglierino del distillato o per il ghigno appena trattenuto dell’uomo che smeriglia bicchieri. rimuovo il tappo, ed è come aprire il vaso di pandora. non posso più tirarmi indietro: oltre la cortina di lacrime riesco ancora ad intravedere lo sguardo di sfida dell’uomo. ostento disinvoltura, e con un colpo secco della mano spazzo dal banco un paio di mosche precipitate presso la bottiglia, le zampette che si contorcono nell’aria. afferro la grappa con stretta virile e riempio il bicchierino.
l’uomo mi osserva.
poso le labbra sullo spesso bordo di vetro e le sento sfaldarsi come vecchio intonaco. il primo sorso raschia la lingua, il secondo scortica il palato, il terzo scrosta la gola. mentre la colata lavica discende nello stomaco, ho visioni di vecchiette neravvolte che mugolano incomprensibili litanie dense di u e disciolgono mestolate di ‘nduja in damigiane colme di mazzetti e ghirlande di peperoncini intrisi di grappa. sono certo di percepire un lieve retrogusto di soppressata.
ora l’uomo sghignazza senza ritegno. ho le labbra di una cernia, la lingua ridotta ad un mollusco, sudo come se avessi la febbre ma, punto sul vivo, chiedo del tabasco per una generosa correzione. bevo molto lentamente, confidando nel fenomeno fisico dell’evaporazione. terminato il supplizio, lascio i soldi sul bancone senza il coraggio di parlare, temendo un ritorno di fiamma della sigaretta appesa alla bocca dell’oste. l’uomo non dice una parola e continua ad asciugare lo stesso bicchiere. forse ha la mano incastrata e tenta di darsi un contegno.
l’aria della notte gela la mia fronte madida di sudore, che cade al suolo in piccole stille di ghiaccio. mi incammino lentamente verso casa, per strade silenziose e ghiacciate, ascoltando il rombo dei gorghi di sangue dentro le mie vene dilatate come oleodotti.

apocalypse fowl

verrà l’anticristo a mietere
l’ultimo spaventoso raccolto
roger bacon

ieri ho visto haber e la gerini che si facevano un polpetta e spritz alle 9 del mattino. a pochi passi di distanza ho incrociato un bimbo in passeggino che nella mano sinistra stringeva un pollo – non un galletto, un pollo – di peluche. poi l’elefante rosa ha svoltato l’angolo ed è scomparso.

gastrotettonica

anybody who believes
that the way to a man’s heart
is through his stomach
flunked geography.
robert byrne

ho affondato forchetta e coltello nelle gonfie carni della pangea.
di notte, la deriva dei continenti. ho guardato il sudamerica mentre si allontanava dall’africa senza voltarsi indietro una sola volta.
e il rimpianto era mio.