volevo un gatto nero

vengo svegliato dalle prime luci dell’alba. non posso parlare di ipotermia – essendo morto – ma fa comunque un freddo cane. mi abbandono pigramente al dolce dondolio delle onde e al cigolio ritmico del legno, godendo degli ultimi brandelli di sonno.
prima ancora di aprire gli occhi percepisco una presenza. qualcuno mi osserva immobile, chissà da quanto tempo. lentamente schiudo lo sguardo, aprendo una cauta fessura alla cruda luce del giorno. per qualche secondo rimango abbagliato, poi è emergono indistinti i contorni di una sagoma scura. è allora che avverto un soffocante senso di oppressione al petto. la cosa è vicina, molto vicina. troppo: all’inaspettato e gelido contatto sul viso spalanco gli occhi, soffocando un grido. e vedo il gatto.
comodamente accovacciato sul mio torace, allunga il collo verso il mio volto e mi studia assorto con lievi tocchi del suo naso nero. in vita e in morte mia, non ho mai visto un gatto così nero e lucido. quasi sia stato smaltato, i riflessi del mare disegnano sul pelo intricati arabeschi in movimento. ha grandi occhi dorati punteggiati di verde, e uno sguardo terribilmente serio. forse di riprovazione.
mi alzo con lentezza, e altrettato lentamente il nerogatto discende dal mio petto, limitandosi a emettere un trillo grave e soffocato. sosta in precario equilibrio sul bordo della sanpierota, poi balza sulla banchina dove si accuccia subito, rivolto in attesa verso di me. scendo anch’io dalla barca e mi siedo su una bitta, aspettando il signor uccio.
dopo qualche minuto all’estremità del molo compare un tipo sulla sessantina. ha i capelli piuttosto lunghi e lisci e un paio di baffi notevoli, grigi e screziati di rosso. mi chiedo come possa essere così abbronzato in questa stagione. avanza lentamente sulle sue lunghe gambe storte, fissandomi con indifferenza. te son ti manuel? mi apostrofa da pochi metri di distanza. senza attendere una mia risposta fa un cenno con la testa e si volta per tornare indietro, con la chiara intenzione di guidarmi. così cordiale al mattino, figuriamoci alla sera. mi avvio senza raggiungerlo, nè lui si cura che lo segua. io invece mi volto e noto che il nerogatto mi segue alternando piccoli passi a lunghi balzi. se vuole venire con me, che faccia pure. almeno non mi sentirò solo, in questa città popolata da laconici ucci e senza nemmeno un collega.
percorriamo qualche centinaio di metri sul lungomare, a quell’ora già affollato da auto e scooter; attraversata la strada, ci inoltriamo tra alti palazzi antichi. dopo un paio di isolati si apre uno spiazzo lastricato di gatti e pietra chiara; da lì ci addentriamo in una stradina stretta e leggermente in salita. via dei capitelli, leggo in una targa, ma non ne vedo uno. vi si affacciano invece case fatiscenti a due o tre piani, con l’eccezione di un incredibile edificio cubico di colore giallo, ornato di sporadiche e casuali onde di metallo blu. credo che risponda al nome di casadellamusica ma sembra piuttosto la casadelcarillon.
uccio termina intanto il suo compito: dopo avermi indicato la facciata scorticata di una casa gracchia qualcosa che concerne il secondo piano, mi mette in mano una chiave e se ne va per la sua strada. spingo con cautela il portone malandato, e nella fessura si infila rapido come una freccia il nerogatto, scomparendo nel buio. all’interno cerco a tentoni un interruttore e, rassegnato, salgo le scale intuendo nella penombra gli scalini di pietra. il nerogatto mi attende da qualche parte, in alto, e mi guida con brevi e impazienti miagolii. miagola scemo, mica vedo al buio come te.
una finestra velata da schitti di piccione o gabbiano illumina a stento il pianerottolo del secondo piano. il nerogatto si strofina contro lo stipite di una porta dipinta di blu duecento anni prima, mentre un pennello bianco ha tracciato sul legno il numero 1974. infilo la chiave nella toppa e ovviamente la serratura scatta solo in parte. una spallata, ed è aperta. miao, commenta ammirato il nerogatto.
dentro, il casino assoluto.