è notte fonda, e sono arrivato. la falce della luna, velata dalle nubi, rischiara appena le increspature del mare. il volto di trieste è definito soltanto dalle migliaia di lumini che punteggiano la costa e la massa scura del carso che la preme alle spalle. domina il giallo e l’arancio, e nel loro tremolare le luci sembrano le braci di un fuoco ormai spento. sulla costa, a sinistra, unito alla città da un lungo cordone ombelicale di lampioni, emerge dalle acque nere un piccolo castello di un candore spettrale, quasi cesellato nell’alabastro.
il vento è calato e la barca scivola silenziosa a ridosso della diga. lo sciabordio delle onde sullo scafo e il risucchio della scia sul timone coprono la rude carezza del vento sulle vele, ora ridotto ad un fruscio. descrivo curioso un’ampia curva in prossimità di un lungo molo deserto, avvicinando e poi oltrepassando una strana e splendida piazza, quinta di teatro per chi proviene dal mare.
non ne potevo più, queste ultime ore di viaggio sono state estenuanti; onde e schiocchi di vela mi hanno quasi assordato. sono sbarcato dal titanic nel pomeriggio, al varco di caorle, e mi sono subito diretto al porticciolo dove mi attendeva un’imbarcazione di collegamento. vai sulla marina dei bragozzi, cerca il peschereccio scarpena e chiedi di nane, mi ha detto il comandante caronte. l’ho trovato subito, nane. era dentro una piccola barca in legno ormeggiata accanto alla scarpena, e stava armando una pesante e vivace vela arancione e rosso mattone. in quel momento ho pensato ad alta voce no, una vela al terzo no. e invece sì, ha sogghignato nane, varda che bea sanpierota, se ciama canocia. osservavo affascinato l’uomo, mentre fissava il da tera alle estremità anteriori delle due antenelle. nel frattempo rinforzava velocemente un vento da nordest e pensavo a come ero fortunato: mi si prospettavano ore di bolina, a zig zag per l’alto adriatico come la pallina di un flipper. a quel punto nane ha fiutato il vento arricciando il naso, e ha cantilenato megio ‘na man de tersarioi che far navegar anca i pagioi. te vedi? ha continuato, scandendo i vocaboli tecnici che tentava di tradurre in italiano distibuendo consonanti doppie in modo forse arbitrario. ciapo la bosa e la blocco, e cussì anca la brancarella. poi ligo i matafioni, te disi cussì, no? ciapo la vela e la tiro su ma l’antenella de sora – el picco, come te lo ciami – xe lontan dall’albero ergo, so anca parlar latin te vedi, ligo la trozza. va in malora, gato dell’ostia, sempre in mezo ai cojoni! ero stordito dal fine ricamo di cime e nodi che il marinaio eseguiva quasi ad occhi chiusi. delle sue pignole spiegazioni tutto quello che ricordo è l’essenziale, ovvero come regolare la bolina per dare la forma adatta alla vela.
mi ha lasciato partire soltanto dopo una decina di ombre e una volta fuori dal canale sono stato subito investito da un vento ben teso, anche troppo, e naturalmente contrario. ho cominciato a bordeggiare, con la scotta della randa e la bolina ben cazzate e il caricabasso regolato in modo da mantenere il boma perpendicolare all’albero, come si era raccomandato nane. tutto sommato, la sanpierota si governa come una barca a vela normale.
ora mi dirigo verso il faro piccolo, la lanterna della sacchetta, come l’ha chiamata nane. devo cercare un ormeggio in darsena, dormire come posso in queste poche ore di buio che mi rimangono e attendere che un certo uccio venga a cercarmi.
Me pare no la te vadi tanto mal.
a parte le vesciche alle mani?