melcedes

la mercedes balkan sta subendo un lento ma inarrestabile processo di cinesizzazione. i primi sintomi risalgono al mese scorso, quando il mio collaboratore scoprì uno specchietto pendere mesto dal proprio supporto, quale ramo spezzato. fece visitare il lugubre arto a vili meccanici e grevi sfasciacarrozze, constatando l’esosità del ricambio. le risorse elargite dal ddm sono esigue.
un losco carrozziere suggerì il rimedio, prosaico ma efficace: ordinare un surrogato cinese. presto la medesima sorte toccò a fanali, paraurti e cerchioni.
oggi la metastasi è giunta a una fase critica e l’avvilito anestesista-rianimatore è tormentato dal dubbio: passi per l’esteso ed involuto sfregio sul cofano, ma è necessario supplire all’argenteo stemma, vilmente sottratto, con l’aurea costellazione cinese?

oh lady won’t you sell me a mercedes benz

eviterò di accompagnare ancora il mio assistente, quella mercedes balkan è imbarazzante.
eravamo in auto, parcheggiata sottocasa. accanto a me l’anestesista-rianimatore, in preda ad una crisi di panico, elaborava ad alta voce la migliore strategia per partire. ho sentito anche cunei di legno. il conflitto tra la strada in salita e il freno di stazionamento a pedale appariva insanabile. tre uomini si avvicinano, chiaramente interessati alla nostra presenza, e orbitano lentamente attorno alla mercedes. sembrano osservare o cercare un dettaglio: uno saggia la carrozzeria, un altro verifica i pneumatici, un terzo si piega a terra e controlla il pianale. si riuniscono davanti al cofano e confabulano, scrutando l’interno. mi fissano con incredulità e disprezzo, scuotendo la testa. concluso il consiglio, il portavoce bussa al finestrino dell’anestesista-rianimatore.

– tua auto?
– sì.

rapido sguardo sdegnato nella mia direzione.

– tu vendi auto.
– no.
– noi pagare bene.
– non la vendo.
– no buona per te. noi diamo soldi, tu compri auto giusta per te. fiat panda.
– a me va bene questa.
– no. tu donna.

mi casa no es tu casa

ho incontrato infine l’anestesista-rianimatore, per la prima volta dopo mesi. era in cucina e studiava uno dei suoi adorati coltelli, rigirando con lentezza la lama sotto la luce del lampadario, mentre i riflessi saettavano sulle pareti. si è voltato verso di me e senza alcun mutamento nello sguardo ha stirato le labbra in un tentativo di sorriso. poi ha ripreso l’esame del coltello, con un’espressione poco rassicurante. non una parola, nemmeno da parte mia, sorpreso per l’incontro e l’aspetto inatteso del mio presunto collaboratore. una giovane donna minuta, i capelli castani raccolti da una molletta a cui sfuggivano ciocche più chiare, zigomi alti, gelidi occhi chiari, le labbra piene e allungate, arricciate agli angoli. indossava un semplice maglioncino verdoliva, jeans scoloriti e un paio di scarponcini. nulla dell’anestesista-rianimatore che immaginavo: un omunculo ricurvo e contorto come una radice, avvolto in un grembiule logoro e sudicio, dal passo strascicato eppure in perpetuo movimento, tra frasi masticate e sinistri gorgoglii.
non ho afferrato subito le sue parole. le ha ripetute, scandendole con voce piana: conserviamo i barattoli, ché servono, i barattoli. ero sconcertato.
a diradare lo spesso disagio, un miagolio rauco ed insistente. due orecchie nere sono spuntate oltre il bordo del tavolo, seguite dal musetto di behemot, rintanata sulla sedia. non era lei, lo straziante lamento proveniva da fuori. un gattomendico attendeva accovacciato sullo zerbino: aperta la porta, i miagolii sono saliti di due ottave. alle mie spalle, l’anestesista-rianimatore ripeteva senza sosta che c’è, cosa vuoi, qui non c’è nulla per te, non abbiamo niente, vuoi latte? non lo abbiamo, vuoi pesce? non lo abbiamo, vuoi carezze? non le abbiamo, che c’è, non tornare t’avevo detto, che vuoi. il gattino strillava. tra le mie gambe è spuntata anche la nerogatto, con il naso teso verso l’essere gnaulante, che è ammutolito all’istante. behemot avanzava e l’ospite arretrava, fissandola con attenzione. non osava voltarsi e fuggire, temendo che la stronza gli piantasse le unghie nei quarti posteriori. hanno percorso così l’intero ballatoio, in una danza lenta e silenziosa, fino a scomparire nella tromba delle scale. la tensione si è liberata improvvisa, tra alte strida feline, e un attimo dopo i due gatti sfrecciavano lungo la diagonale del cortile, verso l’uscita.
rientrato in casa, dell’anestesista-rianimatore non c’era più traccia. avrei voluto chiedergli della piccolakrukka. sul tavolo della cucina, decine di barattoli di vetro erano disposti in lunghe file sinuose.

knives and spirits

there are a lot of spirits in me.
manuel calavera

la porta è sempre chiusa e non ho ancora incontrato l’anestesista-rianimatore, il misterioso ed inquietante collaboratore. collabora a che cosa, mi chiedo, non l’ho mai visto. i nostri tanatoritmi oscillano su piani sghembi. non è barricato nella sua stanza, questo è certo, lo noto da piccoli dettagli: lievi spostamenti di oggetti, un bulbo di giacinti in fiore invasato in un grancru, una scorza di parmigiano sul tavolo.

l’anestesista-rianimatore ama i coltelli.
ne possiede uno, lama breve e larga, manico grave e bilanciato, che trovo nei posti più impensati, senza alcuna ragione evidente. nel lavandino, nel barattolo dello zuccherodicanna, sopra una sedia, tra le pagine di un libro. in cucina è comparsa una scatola piatta di legno chiaro, contenente un’assortimento di coltelli identici. di maniago, eh.

l’anestesista-rianimatore ama le arance.
ne avevo colmato una cesta, sono state decimate. ora lunghi trucioli e perfette spirali arancioni pendono in cucina, oscillando al minimo movimento d’aria, con grande gioia della nerogatto, che salta per ghermirli. nell’aria si addensa il profumo di zagara e giacinto.

l’anestesista-rianimatore ama i liquori.
li stiva nel frigo: al mirtillo, al limone, alla liquirizia, alla nespola, al mirto, amaro di don dome’, rum al miele. ma non li beve, li raffredda.

l’anestesista-rianimatore ha una mercedes, a giudicare dal portachiavi che talvolta compare sul tavolo. a me il ddm non ha dato nemmeno una bicicletta. forse è suo, il modello rom parcheggiato davanti al portone.
so quando l’anestesista-rianimatore è in casa. un’ombra fugace dietro il vetro smerigliato, passi scricchiolanti, il mio rivelatore di presenza: behemot rizza il pelo e soffia ostile verso la porta misteriosa, prima di attraversare lesta il parquet antistante. nell’altra casa la nerogatto si addormentava ovunque, ora attende con pazienza che mi corichi per poi acciambellarsi sulla coperta, tra le mie gambe. a volte di pazienza ne ha davvero poca. ieri sera, esausta, si è trascinata da sola nella mia camera. notando che non l’avevo seguita, ha cominciato a lamentarsi sommessamente, un miagolio crescente che presto si è aperto in un urlo.