le farfalle sciocche

farfalle trafilate al bronzo con ciliegini e basilico, annuncia orgogliosa. oggi l’anestesista-rianimatore ha voluto cucinare per me. dobbiamo prendere confidenza, ha spiegato. il profumo è invitante, sembra un buon inizio.
porto alla bocca le prime farfalle e un sapore dolciastro mi vela il palato. hai messo zucchero, protesto, non sale! lei alza le spalle. può essere, commenta, capita. non morirai mica.

mi casa no es tu casa

ho incontrato infine l’anestesista-rianimatore, per la prima volta dopo mesi. era in cucina e studiava uno dei suoi adorati coltelli, rigirando con lentezza la lama sotto la luce del lampadario, mentre i riflessi saettavano sulle pareti. si è voltato verso di me e senza alcun mutamento nello sguardo ha stirato le labbra in un tentativo di sorriso. poi ha ripreso l’esame del coltello, con un’espressione poco rassicurante. non una parola, nemmeno da parte mia, sorpreso per l’incontro e l’aspetto inatteso del mio presunto collaboratore. una giovane donna minuta, i capelli castani raccolti da una molletta a cui sfuggivano ciocche più chiare, zigomi alti, gelidi occhi chiari, le labbra piene e allungate, arricciate agli angoli. indossava un semplice maglioncino verdoliva, jeans scoloriti e un paio di scarponcini. nulla dell’anestesista-rianimatore che immaginavo: un omunculo ricurvo e contorto come una radice, avvolto in un grembiule logoro e sudicio, dal passo strascicato eppure in perpetuo movimento, tra frasi masticate e sinistri gorgoglii.
non ho afferrato subito le sue parole. le ha ripetute, scandendole con voce piana: conserviamo i barattoli, ché servono, i barattoli. ero sconcertato.
a diradare lo spesso disagio, un miagolio rauco ed insistente. due orecchie nere sono spuntate oltre il bordo del tavolo, seguite dal musetto di behemot, rintanata sulla sedia. non era lei, lo straziante lamento proveniva da fuori. un gattomendico attendeva accovacciato sullo zerbino: aperta la porta, i miagolii sono saliti di due ottave. alle mie spalle, l’anestesista-rianimatore ripeteva senza sosta che c’è, cosa vuoi, qui non c’è nulla per te, non abbiamo niente, vuoi latte? non lo abbiamo, vuoi pesce? non lo abbiamo, vuoi carezze? non le abbiamo, che c’è, non tornare t’avevo detto, che vuoi. il gattino strillava. tra le mie gambe è spuntata anche la nerogatto, con il naso teso verso l’essere gnaulante, che è ammutolito all’istante. behemot avanzava e l’ospite arretrava, fissandola con attenzione. non osava voltarsi e fuggire, temendo che la stronza gli piantasse le unghie nei quarti posteriori. hanno percorso così l’intero ballatoio, in una danza lenta e silenziosa, fino a scomparire nella tromba delle scale. la tensione si è liberata improvvisa, tra alte strida feline, e un attimo dopo i due gatti sfrecciavano lungo la diagonale del cortile, verso l’uscita.
rientrato in casa, dell’anestesista-rianimatore non c’era più traccia. avrei voluto chiedergli della piccolakrukka. sul tavolo della cucina, decine di barattoli di vetro erano disposti in lunghe file sinuose.

uno spin-off nel fianco

really, i’m in the wrong sector
of the right side
il partigiano johnny – beppe fenoglio

lo pensavo anch’io, seduto vicino alla frana di polenta e čevapčiči, la griglia sopravento.
le bottiglie di vino riposano ancora nel bunker, lacerazione di una cicatrice che unisce lembi benedetti dal vino e maledetti dal sangue. terre liberate, da liberare, mai abbastanza libere. libertà come strati geologici, calvario dopo podgora.
anche loro, se liberati, vivono di vita propria.

a duty-dance with death

gli aerei americani, pieni di fori e di feriti e di cadaveri, decollarono all’indietro da un campo d’aviazione in inghilterra. sopra la francia, alcuni caccia tedeschi li raggiunsero, sempre volando all’indietro, e succhiarono proiettili e schegge da alcuni degli aerei e degli aviatori. fecero lo stesso con alcuni bombardieri americani distrutti, che erano a terra e poi decollarono all’indietro per unirsi alla formazione.
lo stormo sorvolò all’indietro una città tedesca in fiamme. i bombardieri aprirono i portelli del vano bombe, esercitarono un miracoloso magnetismo che ridusse gli incendi e li raccolse in contenitori cilindrici d’acciaio e sollevarono questi contenitori fino a farli sparire nel ventre degli aerei. i contenitori furono sistemati ordinatamente nelle rastrelliere. anche i tedeschi, là sotto, avevano strumenti portentosi, dei lunghi tubi di acciaio. li usavano per succhiare altri frammenti dagli aviatori e dagli aerei. ma c’erano ancora alcuni americani feriti e qualche bombardiere era gravemente danneggiato. sopra la francia, però, i caccia tedeschi si rialzarono in volo e rimisero tutti e tutto a nuovo.
quando i bombardieri tornarono alla base, i cilindri d’acciaio furono tolti dalle rastrelliere e rimandati negli stati uniti, dove stabilimenti impegnati giorno e notte li smantellavano per separarne il pericoloso contenuto e riportarlo allo stato minerale. cosa commovente, erano soprattutto le donne a fare questo lavoro. i minerali venivano poi spediti a specialisti in zone remote. là dovevano rimetterli nel terreno e nasconderli per bene in modo che non potessero mai più fare male a nessuno.

kurt vonnegut
mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini

love boat

la stagione dell’amore viene e va,
i desideri non invecchiano quasi mai con l’età.
la stagione dell’amore – franco battiato

divago lungo le rive, in una splendida e tersa mattinata, amabilmente arruffato dalla bora a 80km/h. nel cielo i gabbiani si librano paralleli, becco a nordest, e assecondano le forti raffiche con ampie e veloci virate fino a un nuovo equilibrio. sotto il velo di spuma fioriscono le innumerevoli meduse.
c’erano anni in cui, in giorni come questi, m’inebriavo di tutte le ragazze che incontravo.
l’enorme mole immacolata dell’ermengald – ammiraglia della geriatric cruise line – sovrasta la banchina dissestata della stazione marittima. gli avanguardisti della classe ’99 sciamano compatti sul molo – hanno 6 ore di tempo per visitare il friuli venezia giulia – ma sono presto respinti e dispersi dalle folate di vento. un turbine di cappellini, giornali, guide, foulard si leva nel cielo e prende il largo, rasentando le onde. i gabbiani si gettano rapidi in picchiata e cabrano, con strida frustrate.
una coppia si avvicina barcollante e tenta di attirare l’attenzione: un’esemplare femmina del tardo pliocene, a braccetto con la figlia coetanea. indossano la tenuta da sbarco dei crocieristi: cappello di paglia ampio come un tavolino da bar, camicione decorato a fiori e tralci, comode braghe alla pescatora, sandali in materiale composito.

  • – hi! excuse me, where are the cannons?
  • – sorry? cannons, you mean in a museum or what?
  • – well, i came here in trieste half a century ago for the first time.
  • – a long time ago.
  • – during the allied government, you know? on a ship full of soldiers. i was the only woman.

abbozzo un sorriso, con espressione comprensiva e polisemica.

  • – ah, no, no, it’s not as you think: nothing to do with soldiers.
  • – well, i didn’t mean…
  • – just partigiani. all of them. screw them all. all the partigiani in the carso.

ora la voce è stridula ed eccitata, la figlia annuisce con forza.

  • – what about the cannons? where are they? we went there to make love, you know.
  • – ok, come with me.

la sede dell’anpi non è lontana.